divendres, 1 de novembre del 2013

Traduzione integrale di: Catalogna, una nazione fatta di lingua, cultura e convivenza

Nell'articolo precedente abbiamo citato parte dell'editoriale del Centre d'Estudis Jordi Pujol del 23 ottobre 2013, particolarmente significativa rispetto ai nostri valori. 
Visto l'interesse dimostrato dai nostri lettori, abbiamo tradotto tutto l'articolo.

L’obiettivo di questo editoriale non è ripercorrere l’evoluzione che ha portato dalle posizioni degli anni Sessanta e Settanta, e anche Ottanta e Novanta – dopo la conquista di democrazia e autonomia – a quelle odierne. Prima la meta cui si guardava era la costruzione di uno Stato spagnolo democratico, socialmente avanzato e parte della dimensione europea. Sul piano economico e sociale era necessario compiere uno sforzo di solidarietà, anche territoriale. Infine – aspetto non secondario, anzi condizione imprescindibile per il buon esito del progetto – si doveva offrire una struttura adeguata al pluralismo che giustizia ed efficienza imponevano ad uno Stato plurinazionale (ovvero costituito da diverse nazionalità, per dirlo con le parole della Costituzione).
Per il raggiungimento di questi obiettivi risultava imprescindibile un solido impegno tra tutte le componenti dello Stato, tra tutti i settori ideologici e tra le diverse realtà nazionali (o nazionalità) che lo compongono tra cui, ovviamente, la Catalogna.
Questo disegno e il relativo impegno collettivo hanno retto, approssimativamente, per venticinque anni, tra ostacoli e tensioni. Nell’insieme, però, ci si muoveva tutti nella medesima direzione. Con risultati positivi per tutto lo Stato sul piano politico, sociale ed economico. Progredendo sul terreno della solidarietà e pervenendo, allo stesso tempo, ad un maggiore riconoscimento delle differenze, tra cui quello della Catalogna, di particolare peso e significato.
Oggi non è più così: si parla di ponti tagliati e di scontro di treni. Le prospettive sono molto preoccupanti e si ha la sensazione di un processo di accelerazione verso questo scontro.
Ciò spiega perché stiano emergendo proposte definite come “terza via”. Proposte che però, in questo momento, sembrano difficilmente percorribili. Da parte catalana, infatti, ci sono molto scetticismo e poca fiducia. Da parte dello Stato, fatto ancor più grave, si registra un totale rifiuto del dialogo. Se oggi parliamo di tali soluzioni, dunque, non è per discutere delle loro possibilità di successo ma soltanto per sottolineare la buona volontà, il desiderio di trovare punti di convergenza o la semplice preoccupazione delle persone ed entità che le hanno portate avanti. Persone ed entità che però mostrano anche una visione parziale delle rivendicazioni catalane e delle loro radici profonde, soprattutto rispetto a un tema che la Catalogna considera essenziale: la lingua.
Tra coloro che parlano di terza via – con l’eccezione di Duran i Lleida tra i catalani e senza eccezione alcuna fuori della Catalogna – nessuno tiene conto del fatto che la sentenza del Tribunale costituzionale e la legge Wert (che segna un arretramento notevole del catalano nella scuola) rappresentano ostacoli insormontabili per recuperare un progetto condiviso di Stato e società.
Già negli anni Novanta si corsero rischi analoghi a quelli che registriamo oggi. Riportiamo di seguito alcuni scritti del 2007 che lo ricordano:
       «Per quanto concerne la lingua catalana, un ricorso contro l’immersione linguistica presentato al Tribunale costituzionale si è risolto positivamente nel 1994. Se in quell’occasione la sentenza fosse stata diversa, si sarebbe messo in pericolo uno dei pilastri della nostra politica di difesa del catalano e di integrazione degli immigrati. Occorre ricordare che in quella fase, in Spagna, non era in atto una campagna contro il catalano come quella attuale, o almeno aveva una minore intensità; e che il Tribunale costituzionale, presieduto da Francisco Tomás y Valiente, godeva di un prestigio, di una libertà e di una sensibilità che oggi non ha».
       «E’ opportuno un riferimento all’atteggiamento e alla sensibilità assunti in quella fase dal Tribunale costituzionale e dal suo presidente in relazione al catalano. Tomás y Valiente, che allora ricopriva la carica, affermava quanto segue: “Sono consapevole che la questione di maggior rilievo che oggi il Tribunale ha tra le mani concerne la lingua della Catalogna”. E aggiungeva: “Qualcuno lo nega e considera moltò più preoccupante il ricorso sulla espropriazione da parte del Governo statale delle imprese di Rumasa. Io rispondo che, sempre e dovunque, può succedere che un giudice costituzionale si pronunci a favore di una impresa e contro il Governo senza che accada niente. Diversamente, il catalano ha una fondamentale importanza non solo per la politica di ogni giorno ma anche per la struttura dello Stato e il concetto stesso di Spagna”».
Che differenza tra questa impostazione e la inconsistenza giuridica e la politicizzazione di bassa lega che hanno caratterizzato la vicenda del ricorso contro l’Estatut de Catalunya del 2006!
Il presidente Tomás y Valiente aveva ben chiaro che la questione della Catalogna assumeva - e assume tuttora - una valenza identitaria molto importante, legata ad una coscienza di Paese e di personalità collettiva propria, in relazione alle quali hanno un peso decisivo il sentimento e, ancora di più, il fatto culturale e la lingua. La nazione catalana non ha base etnica, e non la vuole nemmeno. La Catalogna è e vuole essere, invece, una nazione per lingua e cultura. E per capacità di convivenza.
La politica linguistica, culturale e sociale della Catalogna durante gli ultimi quaranta anni si è identificata in questi principi. A partire da formazioni politiche e ideologiche non sempre coincidenti, ma fondamentalmente d’accordo sugli argomenti di stato sociale, convivenza e lingua, con l’obiettivo che in Catalogna ci fosse il massimo possibile di coesione sociale
Lo Stato sociale può essere indebolito attraverso la perdita di competenze da parte della Generalitat e attraverso l’asfissia finanziaria. Anche per quanto riguarda la lingua vi può essere una legislazione che ne freni, in maniera determinante, l’insegnamento, l’uso e la capacità di essere un fattore d’integrazione già a partire dalla scuola. E’ quello a cui aspirano la legge Wert e una idea di Spagna, oggi particolarmente forte, a cui dà fastidio la piena affermazione della Catalogna come popolo e comunità di lingua e cultura. Questo non è tollerabile. Non è tollerabile che si ritenga sia giunto il momento, come si dice, di «dare un giro di vite» affinché «nel giro di due generazioni la questione della lingua e della autonomia risulti definitivamente chiusa». Di questo parlavamo nell’editoriale «Habéis perdido y no os necesitamos». 

La questione linguistica in generale e, più specificamente, quello della immersione – che, detto per inciso, non è mai stato un problema sociale e di convivenza in Catalogna, anzi al contrario – devono essere considerati di massima importanza. Perché la Catalogna non è né vuole essere una nazione etnica, ma vuole continuare a essere una nazione di lingua, cultura e convivenza.

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